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19 marzo: i papà festeggiati da oltre un secolo

Il 19 marzo è il giorno in cui si festeggiano i papà dall'inizio del XX secolo. Nel festeggiare questa ricorrenza, il pensiero non può non andare a quanto i media, nelle ultime settimane, ci stanno proponendo con immagini di paternità sulle quali occorre, quanto meno, riflettere.


Da una parte ci sono due padri i cui figli sono diventati tristemente famosi per aver commesso il peggiore dei crimini: togliere la vita a un altro essere umano come loro.

Due padri: il primo che viene intervistato su una rete nazionale e racconta di quanto suo figlio fosse “un ragazzo modello”, il secondo che si domanda se “le colpe dei figli ricadano sempre sui padri”.

A prescindere dalla risposta a questo quesito, che appare scontata se ci si basa sull'esistenza del libero arbitrio, la vera domanda dovrebbe essere: quanto delle colpe dei figli derivano dall'educazione che hanno ricevuto dai loro padri? E aggiungo: quale stile educativo sta guidando la figura paterna nel nostro secolo?

Già dagli inizi degli anni '70 un grande psicoterapeuta[1] si era soffermato a riflettere sull'asservimento dell'uomo alla produttività sostenendo che da un mondo governato da padri padroni, tabù, divieti e sensi di colpa nevrotici, si è passati in pochi decenni a una società priva di legge, senza padri, dove l’unica legge è il consumo sfrenato del proprio godimento.

Una gioventù governata quindi da una incapacità a sentire, dove


la richiesta eccessiva di abilità percettive a discapito delle competenze emotive, o provoca ansia, o invece un innalzamento della soglia percettiva per via del quale ci sarà poi bisogno di stimoli sempre più forti per superare quella soglia, altrimenti questi non faranno più effetto”[2]


Dall'altra ho assistito a un lite in diretta dove due personaggi famosi (un conduttore radiofonico, televisivo nonché autore di libri e un giornalista, blogger nonché politico) si sono accapigliati intorno alla questione dei “due padri”.

Il primo, certamente nel tentativo di difendere il proprio prodotto cinematografico, sosteneva che un figlio che è stato adottato ha – nella realtà – due padri, uno biologico e uno adottivo. Il concetto su cui basava il suo ragionamento era lineare e condivisibile:


un uomo che cresce un bambino può essere considerato suo padre anche se non lo ha generato biologicamente.


Il secondo, certamente nel tentativo di difendere il suo credo e la sua linea politica contrapposta ad un decreto di legge che tanto ha fatto discutere perché apriva opportunità a chi ha una preferenza sessuale “differente” da quella che lui ritiene essere l'unica accettabile, ribatteva dicendo che


nessuno può avere due padri. Che il padre biologico verrà sempre riconosciuto dal proprio figlio a discapito di quello adottivo.


Ecco.

Queste le immagini della paternità che emergono nelle utlime settimane.

Ed è davvero questo il mondo dei padri che noi conosciamo e che vorremmo festeggiare il 19 marzo?

Io sono padre e non mi riconosco in nessuna di queste descrizioni.

Sono certamente consapevole che la paternità sta vivendo un periodo di grande crisi perché il ruolo paterno ha dovuto perdere per strada alcune modalità che, oggettivamente, non erano produttive e che trovare una nuova via non è sempre facile. Ma sono anche convinto che una strada in salita dia una soddisfazione maggiore quando si raggiunge la vetta.


Da dove bisogna partire, allora, per cercare di essere un padre “sufficientemente buono” in grado di crescere i propri figli con responsabilità ma lasciando loro la possibilità di crescere, sbagliare, scegliere e formare quindi la propria identità di adulto?

Un amico e collega, che ha da poco aperto un nuovo blog[3] e che da sempre si occupa di paternità, sostiene che


“Si diventa padri quando si comincia ad educare, non prima.”


Ma cosa significa educare?

Educare, secondo me, vuol dire prendersi la responsabilità del proprio ruolo, mettendosi in discussione in ogni momento alla ricerca di nuove strade, partendo dai propri errori senza colpevolizzarsi troppo, riconoscendo i propri limiti e le proprie risorse, tenendo al centro del processo educativo non solo il proprio figlio ma se stessi.

Perché se si diventa padri, quando si comincia ad educare chi è l'educando? Il figlio? O anche il padre nel suo nuovo ruolo?


L'educazione è una strada che si percorre insieme, in questo caso padre e figlio, dove ognuno mette le proprie capacità, conoscenze e competenze al servizio della relazione che si costruisce insieme.


Un padre può essere colui che cerca di insegnare al proprio figlio a diventare un adulto. Ma un figlio è colui che insegna a un uomo ad essere un padre migliore.

E non credo sia un caso che l'ideogramma cinese che rappresenta il termine padre sia composto da due linee che si incrociano: un papà che può esistere solo in relazione all'esistenza di un figlio e che ad esso è legato in modo indissolubile, penala perdita del proprio ruolo.


Ideogramma cinese "padre"

Ecco cosa vorrei festeggiare questo 19 marzo: la fatica che faccio ogni giorno cercando di essere un buon padre per mia figlia, l'energia che metto a disposizione di altri padri nel tentativo di costruire insieme un nuovo percorso.


Perché se le colpe dei figli non ricadono sui padri è sicuro che le colpe dei padri ricadranno sui figli.




[1] LACAN J. (1972), Del discorso psicoanalitico, da “Lacan in Italia”, Salamandra, Milano, 1978

[2] http://www.medicitalia.it/news/psicologia/6391-omicidio-varani-giovani-padri.html

[3] https://paternoeducativo.wordpress.com

Leggi anche GENITORI E FIGLI OGGI: LA FIGURA DELL'EDUCATORE AL LORO FIANCO di Alessando Curti QUI

Alessandro Curti lavora da più di vent'anni nel campo dei minori e delle famiglie con forte disagio sociale e attualmente collabora con gli Uffici di Tutela Minori su casi inviati dal Tribunale per i Minorenni o dal Tribunale Ordinario.


Alessandro Curti, autore di Padri Imperfetti, C1V Edizioni


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